Recensión del libro "Operazione Gramsci" de Francesca Chiarotto. La recensión es de Guido Liguori. |
Alla
conquista degli intellettuali nell'Italia del dopoguerra, con un saggio
introduttivo di Angelo d'Orsi, Milano, Bruno Mondadori, pp. 223, 20 €.
Recensione di Guido Liguori
Nell'ormai
lontano 1988 Eric Hobsbawm ci aveva informato del fatto che, secondo
una ricerca dell'Unesco, Gramsci era il saggista italiano più conosciuto
nel mondo dopo Machiavelli. Ora Angelo d'Orsi aggiorna il dato della
fortuna del comunista sardo scrivendo che «Gramsci è oggi uno dei
duecentocinquanta autori più letti, tradotti, citati e discussi di tutti
i tempi, di tutti i paesi e di tutte le lingue e di ogni genere». Se la
fortuna di Gramsci, non solo in Italia, è di tale portata, il motivo va
ricercato anche in questa Operazione Gramsci, come recita il
titolo del recente libro di Francesca Chiarotto (la citazione di D'Orsi è
tratta dal saggio introduttivo contenuto nel volume).
Cosa
è questa "operazione Gramsci" di cui parla Chiarotto? Il libro
ricostruisce la diffusione della fama e del pensiero di Gramsci dal
dopoguerra all'inizio degli anni '70, ma soprattutto indaga (non a caso
la copertina richiama quella dei "gialli Mondadori") l'"operazione" con
la quale Togliatti e il Pci si adoperarono per introdurre il pensiero
del comunista sardo nella cultura politica del nostro paese. Il pregio
del volume sta soprattutto nel notevole lavoro di ricerca archivistica
che ha alle spalle, per cui l'autrice intreccia libri e discorsi
pubblici con lettere e documenti poco o per nulla noti. Secondo
Chiarotto, «Togliatti, in un difficile squilibrio tra sforzo di
autonomia rispetto alle direttive staliniane e la fedeltà all'Unione
sovietica, usò con intelligenza e spregiudicatezza la figura e l'opera
di Gramsci per confermare, accanto all'identità comunista, la natura
nazionale di un partito in via di profonda riorganizzazione… l'opera
gramsciana fu utilizzata quale mezzo per avviare un dialogo con la
società italiana» (p. 49).
La
difficoltà stava nel fatto che gli scritti gramsciani erano frammentari
ed ellittici. Si doveva pubblicarli nella forma in cui si trovavano
(come avrebbe fatto negli anni '70 Valentino Gerratana) o li si doveva
rendere più accessibili raggruppandoli per temi? Prevalse questa seconda
ipotesi, e se possiamo dire che la forma scelta non fu esente da
limiti, sappiamo anche che fu allora la più proficua, la più utile per
far conoscere Gramsci e assicurargli grande diffusione. Al successo
dell'"operazione" concorse il Premio Viareggio 1947 assegnato alle Lettere dal carcere.
Apprendiamo dal libro il ruolo avutovi da due giurati d'eccezione: il
grande latinista Concetto Marchesi e il grande critico letterario
Giacomo Debenedetti, oltre ovviamente a Leonida Rèpaci (l'inventore e patron del Premio) che aveva conosciuto Gramsci negli anni '20, ma che ignorava di esserne stato bistrattato come scrittore nei Quaderni. Parte della destra allora insorse e gridò al complotto comunista: «un riconoscimento politico più che letterario», scrisse La civiltà cattolica.
Togliatti fu accusato di aver manovrato dietro le quinte. E i figli di
Gramsci, Delio e Giuliano, venuti a ritirare il Premio, addirittura
furono accusati di aver fatto il loro discorso di ringraziamento in
russo. Senza pensare che " come essi stessi dissero " se non sapevano
l'italiano era per colpa di quel regime fascista che li aveva costretti a
vivere lontani dal padre.
Anche
non mancò in quell'occasione chi " tra le file degli ammiratori di
Gramsci " storse la bocca per il riconoscimento andato al grande
scomparso. A Cesare Pavese " che pure era magna pars della Einaudi, nonché iscritto al Pci " il Premio sembrò una diminutio:
come se, scrisse in privato, avessero voluto dare un premio a
Machiavelli o a Cattaneo: Gramsci era troppo grande per un premio
letterario! Il repubblicano Gabriele Pepe lamentò invece l'aura di
borghese mondanità che circondava il Premio Viareggio, così lontana
dallo stile e dagli interessi di Gramsci. In una lettera privata, al
contrario, Togliatti negò con forza che il riconoscimento fosse inadatto
alle Lettere, aggiungendo che comunque la politica " pro o contro Gramsci " dovesse astenersi da ogni intervento per influenzare i giurati.
A
parte il Premio Viareggio, l''"operazione Gramsci" andò in porto perché
era una grande operazione culturale e perché la grandezza di Gramsci
era destinata a imporsi nonostante le varie "cortine di ferro". La
scelta prevalsa alla fine degli anni '40 di pubblicare una edizione
"tematica" non avvenne " risulta dai verbali delle discussioni che si
ebbero nella piccola commissione designata dal Pci a decidere in merito "
valutando questioni di "prudenza" teorica o politica, come in seguito
fu più volte ripetuto. Il dibattuto nel Pci non fu se pubblicare, o se
pubblicare con censure, ecc., ma quale fosse la forma migliore per
presentare un materiale oggettivamente ostico come i Quaderni:
mantenendo la fedeltà filologica o escogitando una forma che ne
permettesse la massima diffusione? «Si riscontra soprattutto, in questi
dibattiti " scrive Chiarotto ", la volontà di rendere fruibile al
maggior numero di lettori il pensiero gramsciano, prima e più che la
preoccupazione di adeguarsi alle direttive staliniane o a timori di
scomuniche ovvero a ragionamenti di opportunismo politico» (p. 91). Una
operazione giusta, come ribadirà lo stesso Gerratana ancora dopo
l'uscita dell'edizione critica, perché permise subito di individuare i
grandi temi della riflessione gramsciana e ne favorì così enormemente la
diffusione. Del resto fu Togliatti stesso, nota l'autrice, a volere
fortemente anche l'edizione critica, e senza censure.
Il
libro contiene molte altre pagine interessanti: dalla disamina delle
recensioni seguite all'uscita dei singoli volumi delle opere gramsciane
alla fondazione dell'Istituto Gramsci, dai rapporti tra Pci e Casa
Einaudi ai retroscena del primo convegno gramsciano del 1958. Insomma, i
vari aspetti di una "operazione" destinata a cambiare la cultura
italiana e non solo.
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